venerdì 4 settembre 2009

il capo (quinta parte)

L'autista passa a prendermi la mattina alle otto. Non ho la più pallida idea di dove siamo diretti e quanto tempo dovrò fermarmi fuori casa. Il capo mi ha telefonato ieri sera e mi detto solo di farmi trovare pronto per quell'ora.
Quando arriviamo all'aeroporto di Bologna lo trovo ad aspettarmi e li scopro che siamo in partenza per a Parigi. Ha l'aria seria il capo e leggermente imbronciata, io lo guardo per quel che vecchio che è e mi fa quasi tenerezza ma subito dopo mi sento quasi una merda per essermi lasciata commuovere da lui. “mi ha detto Francesca che tu parli bene il francese” mi dice mentre facciamo la fila per imbarcarci e ma io in preda al panico da lingua straniera nego “non importa” fa lui “tanto lo parlo bene io” e lì in preda ad un panico anche peggiore, mi chiedo per quale motivo allora, mi ha chiesto di accompagnarlo a Parigi.
Durante il viaggio parliamo di lavoro, lui mi fa delle domande e io rispondo poi mi chiede un parere su qualcosa e io, lusingata da quella domanda, cerco di dare il meglio di me. Un po' mi rilasso, forse sono davvero brava nel mio lavoro e per questo mi sta portando con se. Così mentre lui riposa, io mi attacco ad una ad una alle risposte che gli ho appena fornito e trovo che le mie siano delle belle risposte, ben articolate, esaustive e piene di entusiasmo. Cazzo, mi dico mentre ci avviamo all'atterraggio, forse lui mi apprezza davvero per quello che so fare e non solo perché sono una donna. Forse, mi dico in uno slancio di ingenuità, sono davvero brava e le sue gentilezze sono solo un modo un po' rude di farmelo capire. E mentre mi racconto questa favoletta mi torna in mente il maniaco del cinema che all'età di cinque anni mi toccò le cosce per tutta la durata del film. “mamma” avevo detto alla fine della proiezione “lo sai che l'uomo laggiù è stato molto affettuoso con me? mi ha accarezzato le cosce per tutto il tempo. A me non piaceva molto ma non volevo offenderlo e l'ho lasciato fare, ho fatto bene mamma?”.
Quando atterriamo la botta di autostima ha lasciato spazio alla più misera disperazione: non ho più cinque anni e non sono più in una sala cinematografica con un maniaco ma a Parigi con il capo.
Penso quasi di fingere un malore. Mi dico che se si avvicina fingo di sentirmi male, magari faccio finta di svenire o di avere un attacco di panico. No, l'attacco di panico no che per il mio lavoro è controproducente. Magari fingo un'allergia ecco si un'allergia tremenda..... ma tutti questi pensieri svaniscono rapidamente quando lui mi dice di sbrigarmi che c'è una macchina fuori che ci aspetta per portarci da un famoso cliente. Anzi “il” famoso cliente quello che ha una galleria strepitosa che solo pochi intimi e pochissimi miei colleghi, hanno avuto la fortuna di vedere.

lunedì 27 luglio 2009

In nome dei lavoratori (nona puntata)

La mossa speciale non andrebbe utilizzata se non in casi estremi e con uomini che - dopo - difficilmente rimarranno amici. L'ho adoperata una volta con un tizio, un perfetto sconosciuto mezzo matto, che aveva deciso che gli piacevo molto mentre camminavo da sola su una strada non molto frequentata alle tre di un pomeriggio estivo.

Stavolta è diverso. Calcolo quanto mi costerà sul lavoro non poter parlare più con il grande Sindacalista. Mi costerà un bel po' però non sopporto le sue mani, la foga, la sicurezza. Nemmeno per un istante ha pensato di poter non essere desiderato. Si è lanciato su di me, convinto di essere ricambiato.

Il calcio gli arriva mentre è andato già abbastanza avanti nella sua opera di svestizione della giornalista invitata per una chiacchierata non ufficiale. Non è un calcio molto violento, vorrei non dover chiamare il Pronto Soccorso e passare anche per quella che ci stava nelle ricostruzioni dei sanitari. Il colpo però è sufficiente per fermarlo.

sabato 18 luglio 2009

Il capo (quarta parte)

Papi lo chiamiamo “Capo”. La prima volta che lo chiamo “Capo” non mi piaccio.
Il Capo mi aspetta a Milano ma non mi riceve subito. Anzi. Aspetto più del necessario e quando mi vede mi dice “ah sei qui. Aspettami ancora un po' che dopo parliamo”. “Si capo” gli rispondo.
Quando finalmente mi fa entrare nel suo ufficio ha l'aria stanca e annoiata. Si toglie gli occhiali e si strofina gli occhi. Poi mi chiede se ho qualcosa di urgente da fare l'indomani in ufficio.
La notte la passo da sola a Milano, prima di addormentarmi ricevo una sua telefonata: mi vuol dare la buonanotte.
La mattina dopo alle otto sono già nel suo ufficio, lui ha l'aria professionale, leggermente distaccata, ha l'aria che assume quando deve parlare di lavoro ma qualcosa nel suo tono non mi convince.
Mi chiede come mi trovo con i colleghi, se il lavoro mi piace e se sono disposta a viaggiare. Quel “disposta a viaggiare” lo butta lì tra le altre domande come niente fosse ma quando gli chiedo dove e per fare cosa, mi risponde che per adesso non importa poi comincia a farmi domande intime sui miei colleghi. Vuol sapere se ci sono storie in ufficio di cui non sa niente, mi mette in guardia contro qualcuno (qualche “vecchio marpione” secondo lui, dal quale dovrei guardarmi) e mi domanda se secondo me lui fa bene a fidarsi della mia capa. Io rispondo si di getto e non perché ne sia sicura ma perché penso che voglia tendermi un tranello per scoprire se sono una collaboratrice fedele.
Il tranello effettivamente me lo tende ma non è quello che pensavo io e io ci casco in pieno. “ecco lo vedi come sei? Tu sei troppo buona, troppo ingenua, se non ci fossi io a metterti in guardia e a dirti di non fidarsi di nessuno, chissà cosa ti succederebbe”. Nel dirlo assume il solito tono paterno e mi prende una mano tra le sue. Poi sorride, un sorriso enorme e senza lasciarmi la mano, si alza in piedi, si avvicina, mi accarezza i capelli e tenta di baciarmi. Io mi alzo di scatto e la sedia cade per terra con un gran tonfo. Quando la sedia è tornata a posto anche lui è nuovamente al suo posto e questa volta,, per impartirmi qualche ordine prima che io lasci il suo ufficio, usa il tono annoiato di chi trova che quella conversazione sia durata fin troppo. “va bene vai che avrai da lavorare anche tu e tienimi informato sulle novità...... e, a proposito, non c'è bisogno che tu riferisca di questo incontro alla tua capa”. Ma la mia capa ovviamente sa che sono qui a Milano perché lui voleva incontrarmi. “inventati qualcosa” mi dice mentre sta già componendo un numero di telefono “ti devo dire tutto io? Se non sei in grado di mantenere un briciolo di discrezione sulle nostre conversazioni, allora cambia lavoro”.
Quando esco dal suo ufficio un collega che evidentemente ha sentito la sedia cadere mi fa “ci è andato giù pesante oggi il capo eh!”

giovedì 16 luglio 2009

In nome dei lavoratori (ottava puntata)

Non gli sfuggo infatti. Arretro un po' sul terrazzo ma lui mi è addosso in un istante. Tenta di baciarmi, ha l'alito pesante. Una mano si infila nella mia camicia. Mi sta spogliando e io sono lì, rigida, a pensare alla serata che mi aspetta. Un pomeriggio perso, e le notizie per il pezzo ancora tutte da recuperare. Sarebbe comodo, tutto sommato, farsi fare qualcosa e poi chiedergli in cambio notizie. Almeno tornerei in redazione con il pezzo da scrivere già quasi pronto.

Sarebbe comodo, ma non sono io quella persona. Provo a divincolarmi. Lui mi tiene stretta, non bada ai miei sforzi per sfuggire alla sua presa. Forse pensa che si tratti di una tattica per eccitarlo di più perché mi sembra di sentir aumentare il numero di mani sul mio seno, e ho l'impressione di non aver più nulla addosso. Ci penso ancora un istante, poi uso la mia mossa speciale.

domenica 12 luglio 2009

il capo (terza parte)

Ha cominciato a telefonarmi tutti i giorni.
All'inizio era sempre la sua segretaria a chiamarmi: “Francesca c'è il capo che vuol parlare direttamente con lei. La metto in attesa, quando si libera glielo passo. Mi raccomando” e io ogni volta mi chiedevo di cosa si dovesse raccomandare.
Poi col tempo ho comincio a capire: “mi raccomando Francesca oggi il capo ha avuto una giornataccia, me lo tiri su lei che altrimenti lo sa come è fatto......” e anche se io non so come è fatto, immagino fin troppo bene cosa si aspetti da me la segretaria. E non mi piace.
Il capo tocca, allunga le mani, palpa, recita; qualche volta è paterno, altre aggressivo, altre ancora distratto come se toccare le sue collaboratrici fosse un suo diritto che non ha alcun bisogno di preamboli per essere esercitato.
Tutti sanno ma pare che nessuno ne faccia un problema. Se vuoi fare carriera devi imparare presto come va il mondo e se ti scandalizzi per la prima palpatina del capo, difficilmente sarai in grado di affrontare situazioni ben più delicate.
L'ordine, per tutti i collaboratori del capo, è che quando lui è chiuso in ufficio con una delle sue collaboratrici, nessuno deve disturbare. Così va il mondo.
Col tempo poi ho imparato che fuori da quella porta, nelle stanze dei suoi collaboratori più stretti, si facevano delle vere e proprie scommesse sul genere di avances che avrebbe dovuto subire la malcapitata e sulle eventuali reazioni delle nuove. Le vecchie collaboratrici che uscivano dall'ufficio del capo, erano anzi trattate con goliardica complicità e non si risparmiavano i particolari dell'incontro appena avvenuto. Ad un certo punto furono persino affidate alle parti del corpo che il capo avrebbe toccato, le previsioni del suo umore in occasione di grandi eventi. Se toccava le tette significava che era triste se invece toccava le cosce, significava che aveva qualcosa di diabolico in mente.
Una mattina mi chiama personalmente alle otto e mezzo.
L'ultima volta ci eravamo sentiti la sera prima e avevamo fatto il punto della situazione.Quando sento la sua voce al telefono penso che sia successo qualcosa.
Invece mi chiede come sto. “ieri sera ti ho sentita stanca” mi dice “e volevo assicurarmi che tu avessi riposato bene”. Un po' imbarazzata gli rispondo che ho dormito benissimo "ottimo" mi fa lui "allora ti aspetto nel pomeriggio a Milano che dobbiamo parlare".

In nome dei lavoratori (settima puntata)

Innanzitutto mi allontano. Meglio inserire alcuni metri di distanza fra me e lui, e provare a uscire da questa situazione. La stanza è minuscola, posso avvicinarmi alla porta ma sembra scortese, in fondo non ha ancora fatto nulla e devo riuscire a ottenere le informazioni per scrivere l'articolo. Vado verso la finestra, non è una gran via di fuga, al massimo posso fare il giro del terrazzo con vista sui tetti di Roma, ma è meglio di nulla.

Gli chiedo di precisare meglio alcuni dettagli di uno dei suoi rari pezzi da collezione e ne approfitto per pensare. Considero la seconda soluzione, concedergli un rapido passaggio su di me, ma la scarto subito. Non se ne parla. Considero la terza soluzione, parlargliene. Sì, ci provo. E' un sindacalista, lunga militanza nella sinistra, il dibbbattito ci sta sempre bene, e poi potrebbe anche spegnere alcuni bollori.

Me ne sto lì, sotto la cornice della finestra, a fingere di ascoltarlo, quando mi rendo conto che sta avanzando di nuovo verso di me. Ha ancora l'occhio da pesce lesso. Lo sapevo che la finestra non era granché come soluzione, ora non so davvero dove andare per sfuggirgli.

martedì 7 luglio 2009

In nome dei lavoratori (sesta puntata)

Non so dove ho sbagliato. Dopo l'ennesimo pregiatissimo pezzo della sua collezione unica-al-mondo, guardo l'orologio in modo decisamente palese e improvviso il tono più gentile e ironico che ho in quel momento. Tornerò a trovarlo per sapere tutto del suo passatempo artistico, lo prometto, e prometto anche di studiare a casa e imparare le nozioni necessarie per apprezzare la collezione. Ora, però, è davvero tardi, ho poco tempo ormai.

Forse è proprio in questa frase il mio errore. Lo vedo assumere un'aria inequivocabile. Ho sempre trovato irresistibilmente comici gli uomini alle prese con la loro voglia di baciare una donna. In genere la osservano con un'espressione da pesce lesso. Finché vedo quello sguardo negli amici, negli ex o persino nei molestatori, mi viene da ridere e basta, Quando quel pomeriggio anche al grande Sindacalista viene l'occhio da pesce lesso mi viene da piangere.

E ora? Vado via sbattendo la porta e perdendo le notizie? Resto e gli concedo un passaggio molto rapido su di me? Provo a parlargliene?

venerdì 3 luglio 2009

Questione di opportunità politica [prima puntata]

Gli esordi.

Il primo giorno di lavoro devo lavare via anni di collaborazioni in nero e di contratti trimestrali. Un incarico peggiore dell'altro. Tanta fatica sprecata e un bel po' di sguardi lascivi da lasciare alle spalle. Mi trovo in città, tra gente civile. Poggio i miei stracci in un alloggio decadente (cade letteralmente a pezzi) e cammino per un chilometro senza fermarmi. Sono di fronte all'ingresso di un palazzo meraviglioso. La mia meta proibita. Ne immagino la solidità, i marmi, l'ampiezza. Varco la soglia, sono già in portineria, pronuncio il mio nome, quasi svengo dall'emozione quando mi dicono che mi stanno aspettando. Scavalco una fila di gente che attende di essere identificata e mi sento toccata dal fato. Una privilegiata. Da ora in poi nessuna anticamera.
Supero una scalinata imponente e contemplo quello spettacolo sentendomi finalmente parte della storia. Oltrepasso una stanza lucida, sobria. Marrone e oro sono i colori prevalenti. Tetti altissimi, finestre riparate da drappi e tende preziose. Lussi che pensavo di non poter mai vedere. Ne supero ancora una. Per ogni fermata c'è un uomo che saluta e gentilmente mi indica la strada. Sembra un labirinto, una stanza porta all'altra e poi di nuovo una e poi un ingresso ad arco. Una dozzina di minuti e sono arrivata.
Indosso un paio di jeans, una camicia scollata e un paio di sandali. Fa caldo. Il mio capo mi invita a sedere su una poltrona. Comodissima. Mi racconta un paio di aneddoti. Rido per non deluderlo. Non capisco di cosa parla. Lui è un uomo di cultura. Io una provinciale intelligente. Mi dice qualche frase di incoraggiamento. Lo ringrazio per l'opportunità che mi ha dato. Mi fa fare il giro degli uffici. Questo è il tuo collega. Questa la tua scrivania. Questo il tuo computer. Questo l'archivio. Qui la toilette. Qui c'e' la biblioteca. Ti porto a fare un giro del palazzo. Mano sulla spalla, paterno. Metri e metri di corridoio con la sua mano ancorata alla clavicola. Mi presenta chiunque incontri e io stringo altre mani. Lui continua a contrassegnare il territorio. Passiamo dal bar. Un thè freddo, grazie. E grazie anche a te, di nuovo, per l'opportunità. Non tradirò le tue aspettative.
Mi lancio in un bacio sulla guancia, casto e filiale. Sguardo disarmante. Lui si imbarazza e ritrae la mano. Per un momento sono riuscita a fargli capire che potrebbe essere mio padre. Punto.

In nome dei lavoratori (quinta puntata)

Eravamo rimasti che ho preferito non dirvi quanto fosse basso o alto, ciccione o smilzo il grande Sindacalista. Siamo lì, nel suo buchetto con vista sui tetti di Roma in un radioso pomeriggio. Mi cinge la vita con il braccio e mi accompagna fuori. Ci sono uomini così. C'è chi mostra il video con Bush, qualcuno si serve della collezione di quadri antichi, altri della bellezza di un luogo. Ci sono donne con cui funziona. E altre che piuttosto si farebbero monache.

Il grande Sindacalista è trasversale anche in questo, oltre che in qualche sua collocazione politica. Si serve della bellezza del luogo. Mi mostra terrazze e palazzi nobiliari con aria orgogliosa e sicura. Sembra il padrone di ogni costruzione, da qui a piazza del Popolo. Poi, però, mi riaccompagna dentro. La sua mano è ancora intorno alla mia vita.

Nella stanza non poteva mancare una collezione unica e pregiatissima. Con parole da fine intenditore mi introduce alle caratteristiche di ogni pezzo. Guardo l'orologio. Devo andare in redazione a scrivere e devo ancora trovare il modo di farlo parlare della trattativa della sera prima. Provo a deviare il discorso dai suoi pregiati e inutili oggetti, ma lui prosegue. Inizio a essere un po' nervosa. E comunque se il suo è un modo per portarsi a letto una donna, mi sembra di una noia mortale.

giovedì 2 luglio 2009

Il capo (seconda parte)

La seconda volta mi riceve direttamente nel suo ufficio di Roma.
Ho fatto un buon lavoro e la mia capa lascia che me ne assuma tutto il merito.
Il giorno dopo una macchina con autista viene a prendermi a casa e mi porta direttamente a Roma.
Per la notte ho una camera prenotata al Plaza Hotel.
In ufficio conosco personalmente qualche collega con il quale, fino ad allora, avevo parlato solo telefonicamente. Tutti mi chiedono “sei qui per il capo vero?” e io mi sento leggermente a disagio come una vergine sacrificale.
La segretaria del capo mi accoglie quasi subito e mi fa attendere in una stanza riservata dalla quale si accede direttamente nell'ufficio del capo.
L'attesa, nonostante ci siano diverse persone in attesa, dura pochissimo. Nel giro di qualche minuto, sono già seduta di fronte alla scrivania del capo.
Il tono con il quale mi invita ad accomodarmi è gentile, educato, quasi paterno. Prima che io possa tirare fuori dalla borsa le mie carte, mi chiede di me, della mia famiglia, dei miei studi, della mia situazione sentimentale. Ad ogni mia riposta lui fa seguire un lungo silenzio meditativo come se sapere che mia mamma si chiama Maria, fosse un'informazione particolarmente interessante.
Io non ho alcuna voglia di parlare di me ma mi dico che sarebbe scortese non rispondere.
Lui, dopo ogni pausa meditativa, si sporge sempre un po' di più dalla scrivania, si avvicina al mio volto e usando un tono di volta in volta più basso e più suadente mi dice che sono proprio una brava ragazza. Io raddrizzo la schiena e cerco di aderire con sempre maggior tenacia alla spalliera della sedia.
Poi lui fa qualcosa che non mi aspetto. Si rimette composto sulla sua sedia, raddrizza la schiena e con tono autoritario e professionale mi chiede di mostrargli le carte che ho portato.
Io mi inchino, apro la borsa, estraggo i documenti e li appoggio sul tavolo, e nel momento nel quale la mia mano si posa sulla sua scrivania, lui con un balzo la copre con la sua.
Ora mi ritrovo con la mia mano nelle sue e mi attacco disperatamente all'idea che sia un'altra manifestazione di affetto o di riconoscenza. Il vecchio mi invita a proseguire.
Io non dico niente e comincio a parlare di lavoro.
Un'ora intera a parlare di lavoro mano nella mano con il grande capo.
I

mercoledì 1 luglio 2009

C'e' anche la marchettara intellettuale

Mi presento:

Sono quella che si dice "marchettara intellettuale". Faccio marchette in co.pro, co.co.co. e quello che vendo è intelligenza, parole, idee, competenza che risiede nella creatività, nell'ingegno. Il mondo del precariato è pieno di gente come me. Ricattabile, senza futuro, senza prospettive certe. C'e' però chi ci suggerisce nuovi filoni commerciali attraverso i quali guadagnare. L'idea da sola infatti non basta. Oltre l'idea, l'intelligenza e la creatività ci vuole una certa, diciamo, disponibilità ai rapporti interpersonali stretti. Molto stretti.
In sintesi: se non gliela dai non ti assumono o ti fanno scadere il contratto. Meglio: non te lo rinnovano o te lo rinnovano solo fino a che tu sei attraente, così come può essere attraente la carne fresca, e disponibile. Così si spiega anche perchè tante donne over 40 sono disoccupate.
Vi racconterò delle mie avventure, spesso in stanze di politici per i quali ho prestato "servizio". Non so se saranno riconoscibili, probabilmente si, ma certamente descriveranno un ambiente insospettabile che c'entra poco con le escort e c'entra molto con la normale quotidianità di tante mie colleghe.

martedì 30 giugno 2009

Il capo (prima parte)

La prima volta non ho detto niente.
Anzi la prima volta forse non è stata neanche la prima volta perché sono uscita dal suo ufficio chiedendomi se dovevo davvero considerarla tale.
In fondo ha solo appoggiato la sua mano arteriosclerotica sulla mia coscia e magari era solo un gesto di affetto.
Quante volte ho preferito chiamarlo affetto per non dover prendere delle decisioni. Insomma lo sapevo, lo avevo capito, lo avevo intuito dalla mia capa che mi ha preso in simpatia e mi ha avvisato. Altre non hanno avuto la mia stessa fortuna. Entravano sorridenti e uscivano bianche in volto qualcuna dicendo “mi ha messo le mani addosso” le più tacciono.
Proprio come ho fatto io la prima volta.
La mia capa mi viene incontro sorridendo. - Come è andata? - mi chiede con tono professionale. Poi mi porta nel suo ufficio e la butta sul ridere. In fondo se ci ridi su non è poi una cosa così seria, è quasi una ragazzata e con il tempo, se il grande capo ti prende in simpatia, diventa persino una sfida.
- Sai - prosegue orgogliosa lei -l'ultima volta gli ho detto di no e lui ha rimesso le mani a posto -.
Tra un po' – pareva suggerire il compiaciuto silenzio che aveva seguito quell'affermazione – vedrai che anche tu potrai cominciare ad allontanarti quando allunga le mani e prima e poi persino a dirgli di smettere.
Cambio discorso, la butto sul lavoro anche se lei non pare convinta.
Ho bisogno di tempo, devo riflettere sulla cosa prima di raccontarla, da come racconterò come sono andate le cose, dipenderà il mio futuro lavorativo. Prima di raccontare devo decidere da che parte stare se nel gruppo di quelli che contano o dall'altra parte nella grande massa di segreterie e assistenti maltrattate dalla mattina alla sera.
In fondo mi ha solo messo una mano sulla coscia e dopo anni di colloqui lavorativi, ho dovuto subire ben altro. E poi la mia capa è simpatica e mi ha preso a ben volere anche se ho intuito perfettamente che le avances del capo non si fermeranno qui.
Se sono abbastanza brava e fortunata posso sperare che cominci ad apprezzarmi abbastanza per il mio lavoro da concentrare i suoi interessi particolari verso qualche altra nuova arrivata.

In nome dei lavoratori (quarta puntata)

Lo so, manca una descrizione del grande Sindacalista. Mancano anche alcuni dettagli sulla passione di cui aveva riempito il suo buchino da 10mila euro al metro quadrato nel centro di Roma, e manca l'indirizzo. Una sola informazione di queste e tutti capireste di chi sto parlando. E quindi preferisco sorvolare.

Non sono Patrizia D'Addario: agli incontri con uomini politici, sindacalisti e potenti di vario tipo andavo per lavoro, non per ricattarli o incastrarli. Ad un certo punto ho capito che funzionava così più o meno per tutti e ho cambiato strategia, ma allora andavo disarmata e quindi se proprio volete individuare il nome del protagonista, accontentatevi di indovinarlo dai pochi indizi che vi lascerò.

lunedì 29 giugno 2009

Ragazza immagine

Nei prossimi giorni non sarò più sola a raccontarvi i miei papi. Leggerete anche le storie di 'Ragazza immagine'.

E presto a noi si uniranno anche altre donne, perché i papi abbondano a quanto pare...

venerdì 26 giugno 2009

In nome dei lavoratori (terza puntata)

Il portone si apre da solo davanti a me. Dal citofono viene fuori una voce: 'Appena entri a destra ci sono le scale. E' al quarto piano', ordina. Obbedisco. L'atrio è poco illuminato, le scale lo sono ancora meno. Non ho mai capito perché alcuni palazzi del centro di Roma siano così eleganti, fighetti e bui.

Sul pianerottolo del quarto piano un filo di luce mi guida a una porta socchiusa, il 'buchetto' del grande Sindacalista, una sessantina di metri quadrati, un'unica grande stanza invasa dagli oggetti della sua passione. Sono decine, di ogni colore e forma, di ogni materiale e dimensione. In un angolo un groviglio di fili, cavi elettrici e spine per alimentare fax, computer, stampante laser, impianto stereo, videoregistratore, televisore con schermo gigante.

Non esistono pareti, o comunque non se ne vede traccia, nascoste come sono. Non si scorge nemmeno lui, il grande Sindacalista. Dopo un po' sento la sua voce. Parla con qualcuno al telefono. Sullo schermo del televisore scorrono le immagini di un tg, la giornalista parla di un incidente, un operaio morto in un cantiere. 'Sì, mi sto recando lì, i lavoratori devono sapere che sono con loro'.

Quando mi vede interrompe di colpo la telefonata per venirmi incontro. 'Benvenuta nel mio buchetto...' Mi precede verso una scala di legno. In cima c'è un soppalco con una finestra che si apre su un terrazzo illuminato dal sole. Con un braccio mi cinge la vita e mi accompagna fuori.

giovedì 25 giugno 2009

In nome dei lavoratori (seconda puntata)

Spingo a caso uno dei pulsanti. Una pernacchia metallica e poi un lungo silenzio. Provo un altro, un altro ancora. Li provo tutti. Otto pernacchie metalliche seguite da otto lunghi silenzi. Oggi sarebbe stato facile, avrei preso il telefonino e chiamato il grande Sindacalista per dirgli quello che pensavo del suo citofono. Quindici anni fa mi guardo intorno e vedo soltanto sarcinesche abbassate, portoni chiusi, auto parcheggiate.

Lancio un'occhiata implorante al cancello anodizzato, poi in alto all'edificio cinquecentesco molto elegante, cinque piani di caldi mattoni rossi. E lo vedo, le braccia comodamente appoggiate alla ringhiera di ferro del balcone, il grande Sindacalista si sta godendo lo spettacolo, il mio spettacolo.

'Da quanto tempo sei lì a prendermi in giro?', gli chiedo. Il grande Sindacalista non risponde, si limita a fare un gesto con la mano tesa. Il cancello si apre automaticamente su un vialetto. Lo seguo fino ad un altro portone di metallo anodizzato e un altro citofono senza nomi. Il 'vaff..' a quel punto mi viene proprio dal cuore.

mercoledì 24 giugno 2009

In nome dei lavoratori (prima puntata)

L'appuntamento è in una strada del centro di Roma, strada famosa, da appartamenti a 10 mila euro al metro quadro oggi, e diversi milioni alcuni anni fa, quando la frequenta anche il Sindacalista, il grande leader. Tra una riunione e l'altra, tra una trattativa e l'altra si rifugia lì, nel suo 'buchetto':tre stanze e accessori di proprietà di un ente, pagati a un prezzo di assoluto favore.

'Sono lì, vieni quando vuoi', mi dice un giorno mentre parliamo di una complessa questione di salari. 'Ti mostro le cose che faccio'. Perché oltre a essere un grande Sindacalista è anche un uomo pieno di passioni culturali e ci tiene a esibirle.

Arrivo nel primo pomeriggio. Saranno le quattro. Quello che non capisco proprio è perché vicino ad alcuni palazzi frequentati da personaggi un po' noti non ci sia mai il numero civico e soprattutto un nome sul citofono. Basterebbe anche un nome in codice, chessò 'Sono io' oppure 'Eccomi'. Invece, nulla, se non una fila di cartellini bianchi. I più simpatici sono due. Il primo ha scritto: 'Int. 3' e un altro in vena di lungaggini: 'Interno 5'.